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Grande e positiva impressione ha suscitato ieri tra gli spettatori del Kursaal Santalucia lo spettacolo “Il buio, il fuoco, il desiderio”, diretto da Gianluigi Trevisi e tratto dall’omonima “ode in morte alla musica”, scritta in forma di trattato dall’eminente critico musicale Gino Castaldo (Einaudi, Stile libero, 2008). Il concetto di morte della musica è riccamente analizzato da Castaldo in un viaggio a ritroso nel tempo musicale, tra dotte argomentazioni, evocative immaginazioni e uno stile divulgativo che le rende immediate al grande pubblico. La tesi del critico, mi sembra opportuno anticiparla, è che la musica non possa morire, anzi, si rigeneri da sola dopo una crisi autoindotta, rinasca come
Da quest’opera di Castaldo, Gianluigi Trevisi trae con sapienza uno spettacolo di musica, immagini, tecniche e parole. Sul palco si alternano due voci “narranti”, quella dello stesso Castaldo, che quindi partecipa al progetto anche dal palcoscenico, e quella più vellutata di Loris Loddi, attore e doppiatore tra i più apprezzati del momento: è stato lui a dare la voce a una serie di personaggi cinematografici di grande espressione, da Palla di lardo a Dexter Morgan. La vera sorpresa è tuttavia rappresentata dalla parte musicale dello spettacolo e dall’accompagnamento delle immagini. Giovanni Sollima, violoncellista siciliano di grande talento, è chiamato a dare opportuno, sublime contrappunto ad alcune fondamentali pagine di storia della musica. Pura magia: sembra che dal violoncello di questo virtuoso palermitano esca un’intera orchestra, senti ogni tanto la chitarra, poi interviene la tromba, poi una batteria, tutto esce tra i ruvidi scivolamenti dell’archetto diabolico. Le melodie più disparate (da John Cage ai Nirvana) vibrano dalle corde del violoncello, “musicate” da belle immagini di strade, uomini, macchine, sogni (raccolte e animate da Gennaro Tosto), per accompagnare le note e le parole. I virtuosismi di questa squadra di artisti non sono fini a se stessi, ma riflettono, forse, una precisa strategia del pensiero. Il violoncello, infatti, è un attore imprevisto in questo spettacolo: Sollima suona da varie zone del teatro, cammina tra il pubblico e sul palcoscenico portandolo come un essere umano, come la continuazione mentale del proprio corpo. Ci vuole dire una cosa, secondo me, la più importante: che come l’uomo non può separarsi dalle proprie mani, non può rinunciare ai propri strumenti, non può nemmeno staccarsi dalla musica, perché, come si dice nel testo, “posso chiudere gli occhi e non vedere un quadro, ma non posso evitare di sentire la musica”.