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Con questo articolo inizia un lungo viaggio dedicato alla storia di Bari, descritta dall’appassionato di storia e cultura barese Nicola Mascellaro che da più di trent’anni fotografa questa città e la racconta. Al suo attivo ha diverse pubblicazioni.
Oggi nessuno chiamerebbe questa nostra città, Regina di Puglia. Non perché l’Italia, o meglio il Mezzogiorno, non è più un regno – anche se siamo ancora trattati come sudditi fastidiosi – ma perché si è perso, ormai da tempo, il senso di appartenenza, l’orgoglio cittadino, l’amore, il rispetto per le ‘pietre’ che parlano della nostra storia.
Siamo tutti senza passato, ci sentiamo tutti parte di un mondo che Internet ha contribuito a rimpicciolire. Andiamo a New York per il week end e poi magari non sappiamo chi è il personaggio che da il nome alla strada dove abitiamo. Siamo tutti cittadini del mondo, ma nonostante la Rete, il mondo resta grande. Così grande che spesso ci perdiamo. Ci mancano anche i più banali punti di riferimento: gli odori, i colori, i suoni, le sensazioni che ci fanno dire, dopo una breve assenza, sì, questa è Bari, questa è casa mia. Odori forti, conservati e tramandati per secoli nell’antico borgo di pescatori.
Certo, non si può fermare il progresso, l’evoluzione che l’uomo porta nelle città in cui vive. Si tratta di capire quando bisogna fermarsi prima di perdere la misura, la dimensione dello spazio e del tempo.
Bari inizia il suo cammino verso il progresso nel lontano 1813. Un giorno di primavera venne a farci visita il giovane e sfortunato re, Gioacchino Murat con le sue idee rivoluzionarie e, in una città immobile da secoli, con un tratto di penna e una cerimonia pubblica, decretò la nascita del ‘nuovo borgo’. All’angolo fra l’odierno corso Vittorio Emanuele e corso Cavour, pose la prima pietra di un modesto fabbricato, vi gettò dentro una gemma, racconta la storia, disse… ne faremo una grande e bella città e subito dopo se ne andò a morire a Pizzo calabro.
Ma era vera la storia della gemma e della grande e bella città? Macché, era una licenza poetica dello storico e giornalista Armando Perotti il quale fu così convincente che quando il vecchio fabbricato voluto da Murat nel 1953 verrà abbattuto per costruirvi l’odierno ‘grattacielo’, il sindaco Francesco Chieco per timore che la gemma fosse trafugata fece presidiare lo scavo dai vigili urbani giorno e notte: non si trovò né la prima pietra né la gemma.
Nel 1815 il buon re Ferdinando, tornato a Napoli dall’esilio siciliano, farà proprio il progetto di Murat e come primo atto decreta la ristrutturazione del vecchio convento dei domenicani, odierna Prefettura, già di proprietà del Comune, per fare una sede di rappresentanza del regno. Furono necessari 15 anni per portare a termine l’opera di restauro e ricostruzione, ma quando il palazzo verrà svelato, nel 1830, i baresi gonfieranno il petto per l’orgoglio: il magnifico edificio della Prefettura, bello e imponente ancora oggi, si ergeva in mezzo al nulla. Era al centro di una strada sterrata che da una parte finiva in mare, dall’altra nell’appena abbozzato giardino Garibaldi e di fronte aveva un vasto suolo coltivato a cotone.
Bisogna osare diceva Antonio De Tullio mitico presidente della Camera di Commercio e cinque anni dopo, abbattute le porte d’ingresso della città – una era nell’odierna piazza Ferrarese, l’altra accanto al castello Svevo – i baresi, che da sempre nutrono un amore viscerale per il pesce, si costruiscono un grandioso mercato ittico inaugurato nel 1840.
Così, piazza Ferrarese, che nel 1818 aveva già edificato, di fronte al nuovo mercato ittico, l’originale di quella costruzione che oggi si chiama sala Murat, per lo spaccio di salumi, carni e ortofrutta, diventa il ventre della città affollato, ogni mattina, da venditori ed acquirenti di ogni ceto sociale.
Ormai lanciati nell’edificare palazzi pubblici e privati che lasceranno ai posteri ancora intatti nella loro bellezza, lo stesso anno d’inaugurazione del mercato ittico, è posta la prima pietra per la costruzione di un teatro stabile. I pugliesi hanno sempre avuto una vera passione per il melodramma alimentato da centinaia di bande musicali note e acclamate anche fuori dai confini regionali. Il suolo c’era e l’ubicazione era perfetta. Si trattava di quel pezzo di terra coltivato a cotone di fronte al palazzo dell’Intendenza anch’esso di proprietà del Comune.
La costruzione del teatro Piccinni richiese 15 anni: i l pio Borbone, questa volta Ferdinando II, accolse una supplica di monsignor Clery e ordinò di sospendere la costruzione del Piccinni, per costruire la chiesa di San Ferdinando in via Sparano.
Il Piccinni sarà inaugurato la sera del 30 maggio 1854. L’anno dopo sorge, a destra della Prefettura, lo splendido palazzo Diana.
L’odierno corso Vittorio Emanuele, insomma, comincia a delinearsi. Sarà, poi, la costruzione del ‘gran porto’ con il palazzo della Dogana, nel 1855, e la ferrovia Adriatica, inaugurata nel 1865 in un nuovo Regno, più rapace dei Borboni, a fare di Bari la più ricca città commerciale di Puglia.
Quanti sogni per una cittadina di appena 28mila abitanti.