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Undici istantanee che formano una sorta di pastorale americana. Con una voce squillante (a tratti da bambina) che arrotola ogni parola, Anais Mitchell traccia le sorti di una nazione, dei suoi figli allo sbando e del futuro incerto che li attende.
Folk e western richiamano melodie agresti per sorreggere una prosa di grande caratura. A partire dall’evocativo titolo dell’intera opera, Young Man in America, ogni respiro è calibrato, ogni nota è pesata, in un raro binomio tra climax sonoro e lirico difficile da trovare in artisti contemporanei.
Con citazioni allusive o asserzioni lapidarie, l’intreccio si snoda attraverso la parabola di una famiglia che è un’intera nazione. Salita e discesa agli inferi del self-made man: l’uomo che su spoglio terreno e paesaggio selvaggio erige dimora, plasma lavoro, crea famiglia e consegue certezze, per poi cadere a causa delle manie di grandezza più effimere. E non è solo un’esistenza ad andare in rovina, ma il mondo intero a crollare in pezzi.
Ammirevole l’utilizzo dei sottofondi al tema principale, quasi sempre guidato dalla chitarra di Anais. Il combo di musicisti arruolati per l’incisione (“tribù di amici con nuovi e vecchi musicisti”) crea tappeti sonori ricchissimi eppure discreti che lasciano il timbro vocale sempre in primissimo piano. Wilderland, brano di apertura dal forte impatto, ha un sostrato che scaraventa in un mondo antico eppure senza tempo. Paesaggi bucolici e insediamenti tra terre incontaminate si materializzano al diradarsi di nebbia ancestrale che avvolge la title track, in un crescendo di toni e volumi magistralmente livellati da Todd Sickafoose (musicista e produttore dell’album, già con Ani DiFranco). Young Man in America è una country song dal testo di struggente lirismo. Nelle sue pieghe riposa il seme dell’intero album: da qui in poi si celebrano gioie e si piangono delusioni con pensieri fugaci, argomentazioni dialogiche, visioni bibliche (la cupa Dyin Day che richiama il sacrificio di Abramo) e metafore mitologiche (la guizzante Venus, rimando all’irresistibile i-dea della bellezza). Coming Down, con il pianoforte a rendere più incisivi labili convincimenti (non mi sono mai sentito così in alto/ non ho mai riso così forte/ niente può fermarmi), circoscrive un perfetto trittico di apertura.
Anais Mitchell delinea in poche parole il concetto alla base di Young Man in America. Il protagonista di questo quarto lavoro della musicista nata trent’anni fa in Vermont, è “un personaggio inquieto, al delirante inseguimento del piacere e del successo. Alcol, fama, soldi, sesso, niente lo soddisfa”. Insaziabile e cupo, è lupo solitario famelico e ingordo, è vanesio che ostenta i propri successi, è cacciatore alla ricerca continua di qualcosa che non riesce ad ottenere, forse perché non esiste.
Storyteller vera, Anais Mitchell riesce a caratterizzare con poche parole personaggi che abitano trame semplici eppure rilevanti. Prende a prestito da papà Don, autore della favola The Souls of Lamb (‘79), l’idea per scrivere Shepherd, “vicenda di un moderno agricoltore che perde la moglie per parto, come indiretta conseguenza delle ansie per il lavoro”. Niente è così lontano eppure contemporaneo.
Album imperdibile, esce il 13 febbraio.
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