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Tra amarcord introspettivi, testimonianze tramandate e cronache di cerimonie collettive, Grant-Lee Phillips scava nella penombra dei ricordi per cercare le proprie radici, la propria storia, ma senza l’obbligo di agguantare il perché degli avvenimenti, più semplicemente per riordinarli tra il caos della memoria. E’ questo, in un suggestivo mix tra storia e leggenda, il modello messo a punto dal cantautore per il nuovo disco acustico. Walking In The Green Corn è un viaggio nel tempo che contestualizza le tradizioni del passato e ne individua i risvolti nel presente.
Il titolo del disco prende il nome dalla danza tribale che i nativi americani praticavano per onorare la sopraggiunta maturazione del mais. Una metafora di riferimento per la vita sociale e spirituale della tribù. Un rito estivo dalle diverse sfaccettature: di ringraziamento per il raccolto, benaugurante per il rinnovamento della coltura. La discendenza dalla tribù dei Muscogee-Creek, gioca un ruolo fondamentale nell’ultimo capitolo della carriera solista del musicista. Nel denunciare la progenie, ormai nota ma mai veramente messa a fuoco – fatta eccezione per Susanna Little, brano incluso in Virginia Creeper (2004) – Phillips rivendica l’appartenenza ad una minoranza etnica tormentata, che ha subìto lo sradicamento dalla propria terra, l’imposizione di cultura esogena e ogni sorta di vessazione.
Con voce bassa e confidenziale, Grant-Lee gratta via la ruggine che ricopre la modernità amnestica dell’America facendo risaltare la forza della composizione più essenziale, quella capace di riaccendere l’immaginario senza l’ausilio di una ingombrante elaborazione del suono. Sono brani di spessore che rapiscono e confermano le doti di un busker abile nel trascinare, forte di una libertà compositiva ed espressiva che non è succube da condizionamenti, vista l’assoluta indipendenza della produzione.
Walking In The Green Corn nasce in solitudine, in quel buio che avvolge la notte e invita il fluire dei pensieri più profondi. Interamente ideato e realizzato dal songwriter californiano, l’album si avvale delle pregevoli incursioni di Sara Watkins (violino e voce) e di Alexander Burke (vibrafono). Phillips unisce le proverbiali timbriche vocali (miglior voce maschile per la rivista Rolling Stone, nel 1995) alle qualità di moderno menestrello. I suoni avvolgenti della chitarra acustica seducono il ritmo, sollevano o affondano l’umore dei brani, evidenziando i passaggi lirici. Vanishing Song è prefazione che accoglie, tra melodici assolo vocali e strumming al rallentatore, intarsiata da passaggi di pianoforte scarni ma efficaci. Great Horned Howl è il sussurro purificatore che spiana la strada all’incredibile Buffalo Hearts, dove blanda andatura e canto accorato riescono a sembrare una maestosa sinfonia. La pulsante The Straighten Outer è capolavoro roots sublimato dai toni gutturali di Grant-Lee e dal suono delle corde strappate una ad una dagli accordi di chitarra. Da un’atmosfera rarefatta affiorano Fools Gold e Bound To This World accomunati da una vena smaccatamente melodica (con chiari rimandi al sound dei Grant Lee Buffalo). Ai toni dimessi di Thunderbird e Black Horses In A Yellow Sky si contrappone la solare chiusura affidata alla title track.
Ma il fascino delle composizioni non resta confinato tra i solchi del disco (sì, disponibile in vinile). Sei dei dieci brani hanno già trovato incisivo adattamento dal vivo. Grant-Lee ha affidato all’EP Live at McCabes, scaricabile gratuitamente da NoiseTrade.com, il compito di promuovere il disco. Un percorso pubblicitario inverso, un metodo generoso nonché indipendente, in linea con la produzione del disco avvenuta senza l’ausilio di alcuna casa discografica, contando solo sul crowdfunding tramite PledgeMusic.com.
Analogie, sfumature più che altro, riconducono il ritorno di Phillips alle creazioni migliori di primi attori del “rolk” (rock & folk). Con uno sguardo trasversale, pronto a carpire i dettagli di un’America eterologa, Grant-Lee Phillips coglie nel segno perpetuando tratti estetici della tradizione popolare e continuando a sperimentare grazie ad una voce che arpiona in una morsa immobilizzante. Il suo è un background che rivela l’essenza di un cantastorie nato. Walking In The Green Corn ne è la conferma.