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Prendete un chitarrista autore di riff immortali, musicista assennato con la sola grave mancanza di aver dimenticato per anni un Grammy (!) nel sottoscala. Prendete un cantante dalla stazza imponente ma dalla voce capace di lambire come brezza. E ancora, un batterista abile nel soppesare aggressività e clemenza, e un bassista che sprona il ritmo o mitiga il trend con morbidi tocchi.
Prendete, insomma, Stone Gossard, Shawn Smith, Regan Hagar e Keith Lowe, musicisti di estrazioni diverse che immettono le proprie influenze nei Brad.
United We Stand, disco appena pubblicato, ricrea per la quinta volta in studio quell’alchimia centellinata in vent’anni di sodalizio. Un arco temporale lungo che, rapportato all’esigua produzione, inevitabilmente lascia pensare al gruppo come ad un progetto accessorio, quasi subordinato alla prevalente attività nei Pearl Jam di Stone Gossard. Ma è proprio lui a rinnegare la funzione di side project dei Brad, che nei frequenti e forzati distacchi sembrano accumulare idee degne di essere condivise. Per cos’altro dovrebbero ritrovarsi musicisti affermati (Shawn e Regan sono membri dei Satchel, Keith suona con Fiona Apple e David Sylvian) che mai scaleranno le classifiche di vendita?
Lo stile dei Brad sta a metà tra l’esuberanza rock e un soul moderno e viscerale, amalgama espresso dalla musica bianca di Gossard e dalla voce “nera” di Smith. Un mix svelato con A Reason To Be In My Skin – singolo anticipatore reso disponibile in free download sul sito http://thebandbrad.com/ – che con l’apertura di Miles Of Rope si riallaccia a lavori precedenti.
Contrariamente alle pubblicazioni finora edite, United We Stand è nato dopo prolungate sedute di registrazione che, comunque, non hanno frenato ricerca stilistica e approccio spontaneo. Il tracklisting definitivo annovera perfino il dream pop di The Only Way e quell’esempio di mirabile essenzialità rappresentato dalla riflessiva Make The Pain Go Away, strumming su accordi maggiori e voce tenue a soffiare il testo. Tutt’altro che docili, Diamond Blues e Waters Deep (bonus track per il mercato europeo) assecondano il lato più rozzo della band, così come la robusta Tea Bag, sfacciatamente “Pearl Jam-oriented”, e il nerbo elettrico di Last Bastion stretto tra cori arrendevoli e una drammatica spirale chitarristica che ne sfuma il finale. E se il placido sing along di Needle And Thread è atipico country-soul, Through The Day regala un raro registro di Smith alle prese con toni bassi. Potenza elettrica e impressionismo vocale, insomma, si contendono il controllo delle tracce di United We Stand.
Particolarmente interessante, la copertina del disco presta titolo e foto a molteplici interpretazioni. La grafica inquadra la stessa effigie che appare sulla banconota americana da 100 dollari. Il primo piano, dagli occhi vanamente celati, di Benjamin Franklin mette in risalto il rivolo di sangue fluito dalla commessura delle sue labbra, insinuando l’ipotesi di un cannibalismo parricida, di un drink del tradimento consumato in barba ai valori del Paese. Un padre fondatore divenuto padre sfruttatore della nazione, additato quale archetipo del reggente-vampiro, del propugnatore di una politica ferina. A questa drammatica tesi se ne contrappone una favorevole richiamata dal nome dell’album che rimarca il pregio dell’unione, del vantaggio che concede l’insieme, del potere del “noi”. Anche per questo le liriche di Shawn Smith virano verso la ricerca di idee positive che si abbottonano ad armonie vocali ariose, generosi cori ed espressività soul, come nel mid-tempo di Bound In Time che rigetta mille avversità inseguendo uno spiraglio (“stiamo cercando la luce nel mezzo della guerra”).
Un messaggio semplice e diretto consegnato da una band tanto longeva quanto parsimoniosa, lontana dai grandi riflettori, vicina alla vera essenza dell’arte musicale.
Prestigio, successo e altre ambizioni finiscono in un angolo buio alla stregua di un Grammy ignorato in cantina.