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Rose e spine per la seconda prova solista di Eddie Vedder, cantante dei Pearl Jam. Ukulele Songs traccia impronte nuove e insegue orme di un passaggio già segnato. Trentacinque minuti di accorato struggimento consumati tra grazia e intensità da una voce senza eguali e da una chitarra hawaiana: un insolito binomio nell’ambito del cantautorato rock.
La timbrica vocale di Vedder rapisce dal primo all’ultimo minuto; l’ukulele, invece, rende incerto l’esito di un album completato, per gran parte, già da alcuni anni. L’apertura è affidata a Can’t Keep, precedentemente inclusa con arrangiamento full band in Riot Act dei Pearl Jam. Cadenzata ma incapace di scalciare, la versione qui rispolverata, mantiene parte del suo vigore mentre esprime concetti esistenzialisti (Non vivrò per sempre, non mi puoi tenere qui). E’ il preambolo di un disco impregnato di romanticismo.
Incomparabile con l’antecedente Into The Wild, concept album dal taglio folk ispirato all’omonimo film di Sean Penn, Ukulele Songs tratteggia una nuova estetica del cantastorie di inizio millennio. Equipaggiamento rock bandito ancora una volta ma qui, a differenza del debutto solista di quattro anni fa, emergono elementi che oppongono resistenza a rigide catalogazioni. Curiosa la scelta di rispolverare brani di un’epoca “remota”, temerario l’azzardo di musicare i testi con l’uso esclusivo di uno strumento atipico. Vedder fissa nuovi traguardi per la sua eccezionale vocalità, anche se un sottile ma percettibile tratto rimanda a esperienze precedentemente abbozzate.
Svincolato da ogni collocazione Vedder era già apparso in almeno due circostanze. Nel 1999 smetteva i panni di nuova stella del rock per duettare con l’attrice Susan Sarandon sulle orchestrazioni di Croon Spoon, tratto da un musical del’37 di Marc Blitzstein: in quell’incisione (realizzata per il film Cradle Will Rock) esordiva una voce confidenziale e accomodante capace di trascinare le parole alla stregua di un crooner consumato. Episodio isolato ma precorritore di una condizione cercata per Ukulele Songs che annovera ben quattro cover generate negli anni Trenta (la quinta, la Sleepless Night eseguita con Glen Hansard, è una hit resa nota nel ’60 dagli Everly Brothers).
Più ardita come sperimentazione risultava l’incisione de The Molo Sessions, disco a tiratura limitata del 2004. Con l’ausilio del coro della Walmer High School di Cape Town, Vedder riproponeva brani dei Pearl Jam (Long Road, Love Boat Captain e Better Man) in chiave etnica. Una ricerca che oggi si rinnova nell’audacia dell’approccio creativo, ma non sostanziale, di Ukulele Song, dove una voce rock travolge lo strimpellio o sprofonda nel pizzicato di questo piccolo strumento che anche nel booklet del CD si ritaglia un ruolo da protagonista.
Le piccole melodie dell’ukulele e le introspezioni di un cantante: due mondi che collidono per sviluppare un’antologia di brani in preda al desiderio e al rimpianto. Come avviene nell’ispirata Longing To Belong, dove la performance canora si accosta ad un costrutto sobrio, impreziosito da accenni di violoncello; o nella crepuscolare Tonight You Belong To Me in duetto con la stravagante Cat PowerGoodbye e nella malinconica Broken Heart. Dream A Little Dream, invece, presenta spunti enigmatici: cantata con un’intonazione funerea – più Tom Waits che Bing Crosby – quasi destabilizza le certezze espresse nel rassicurante testo.
Elemento di congiunzione tra passata e odierna poetica è sempre l’immensità del mare. La metafora dell’oceano ritorna a più riprese nei versi e occupa la scena nei video di Longing To Belong e Can’t Keep. Quell’oceano che ha rapito il cuore di Vedder anni fa, che l’ha portato ad amare il surf ed ad apprezzare una chitarrina dall’impatto sonoro fortemente evocativo di spiagge soleggiate e acqua salmastra. Quell’Oceano da sempre presente nei testi di Vedder: dalla languida Oceans che spegne i ritmi incandescenti di Ten, all’epica Amongst the Waves chance per l’espiazione nell’ultimo Backspacer.
Le coloriture della voce di Eddie e le quattro corde della chitarra hawaiana, però, non sempre bastano a rendere “Uke Songs” un album memorabile. Musicalmente poco vario non colpisce al cuore. Episodi minori, inoltre, convivono accanto a buone scelte: Light Today è poco più che un abbozzo, Waving Palm un intermezzo. Più che altro, questo diario delle emozioni, andrebbe considerato un corto d’autore fuori concorso: interessante e inatteso ma non imprescindibile.