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In Praise of More, terzo album degli Engineers, segue di poco il precedente Three Fact Fader e nel nugolo di nuove uscite discografiche spicca per i contenuti proposti nell’edizione limitata. Due CD di cui uno riporta le nove tracce definitive e l’altro le ripropone libere dalle basi vocali. Il secondo disco, insomma, prospetta una sorta di “downgrade” che induce a credere nella marginalità del lavoro vocale di Mark Peters e Simon Phipps, solisti che abbozzano innocue melodie.
Confessioni private – spinta propulsiva alla base delle liriche – si abbinano a un pop fragile e generano un sound dai contorni indefiniti, eterei. Affreschi tenui, fin troppo per risaltare in un mercato che promuove grossolani urlatori e starlet discinte.
Rimaneggiamenti di formazione (il tastierista tedesco Ulrich Schnauss è entrato in pianta stabile nella band) e assestamenti di leadership (Peters ha scritto, cantato, prodotto, mixato e fotografato per In Praise of More, esautorando di fatto il resto della band) indicano una metamorfosi parzialmente compiuta. O forse quel mood lacunoso e statico è volutamente ricercato, è meta agognata sin da principio.
Il tratto decisamente elettronico e sognante trapela senza interruzione e decide il genere a cui ascrivere l’album: un dream pop dallo spiccato accento british che, di tanto in tanto, rammenta il primo repertorio dei concittadini Depeche Mode (di Basildon proprio come gli “ingegneri”). Twenty paces, con le orecchiabili architetture melodiche, ne è tangibile esempio. Chitarre acustiche in primo piano, invece, per quella What it’s worth che lambisce, solo ed esclusivamente nel titolo, la leggendaria ballad dei Buffalo Springfield. Krautpop vintage in To an evergreen dove s’impone, austero, il synth del teutonico Strauss. Schizofrenica la title track che ha ispirato le convulse immagini di un video.
Come spesso accade, le opere del passato provvedono a solleticare l’ispirazione.
In questo caso è uno scritto del celebre umanista Erasmo da Rotterdam ad influenzare il gruppo inglese. Al saggio “Elogio della Pazzia”, detto anche “In elogio di Moro” (che in inglese diventa “In Praise of More”), si deve il titolo dell’album. L’impresa sarà pure pretenziosa ma almeno c’è un’alternativa alle canzonette.