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E’ uscito nelle sale da pochi giorni ed già un caso esemplare il lungometraggio di Pippo Mezzapesa sceneggiato da Antonella Gaeta, dimostrando di poter competere con le migliori opere prime del cinema italiano di tutti i tempi.
Diremo subito che si tratta di un gioiello prezioso che, abbandona l’attitudine finemente introspettiva di Mezzapesa, e contemporaneamente, esalta i valori tematici, e non solo formali, di libertà e giustizia espressi agevolmente in tutti i suoi precedenti lavori.
"Il paese delle spose infelici" è una mirabile congerie di afflati e sguardi narrativi che, nel loro sviluppo più maturo, costruiscono una vera e propria poetica. Mezzapesa, in questo dimostra di essere il più completo Regista di Puglia, forse l’unico. Diciamo questo certi di attirarci contro gli strali degli altri, videomaker seppure interessanti o registi ancora in erba! Sviluppare una poetica coerente non significa, infatti, solo occuparsi sempre e soltanto degli stessi temi soprattutto ma mantenere una coerenza nello sguardo, in ciò che si racconta, in come si narra.
Lo sguardo di Mezzapesa, supportato dal racconto di Mario Desiati e dalle mirabili scelte tecnico narrative di Antonella Gaeta, mostra onestà e freschezza, quella stessa che caratterizzò i suoi primi lavori "Lido Azzurro", "Zi Nanà", "Come a Cassano", cortometraggi, che ne fecero già un piccolo maestro nel 2001, quando era ancora un ventenne imberbe!
Con queste premesse accomodandomi, per assistere alla proiezione de "Il Paese delle Spose Infelici", nella sala 3 del bel Cinema Opera di Francesco Asselta, a Barletta, desideravo che Pippo Mezzapesa, Antonella Gaeta, Mario Desiati, Vito Lopriore, Roberto Corradino, Bibi Mastroviti, Vito Palmieri, Pasquale Catalano, Giogiò Franchini, Michelino D’Attanasio, mi raccontassero una storia. Questo è accaduto, magicamente.
In questo film non c’è la Puglia delle discariche abusive, dei maledetti connubi tra sesso e politica, dei crolli di cui la stampa e la politica stessa straparlano, autocitandosi e compiacendosi perfidamente in un grande onanismo del male, ma c’è l’arte della Puglia dalle origini al post industriale, ci sono i paesaggi che da soli costituiscono la straordinaria potenza dello sguardo.
"Il paese delle spose infelici" è un film è forte, accattivante, brillante, pieno di trovate, colmo di citazioni, autocitazioni, extracitazioni. La storia che si percepisce alla fine è concreta, è cinema, come non ne vedevamo da anni. E’ il racconto d’un viaggio di un eroe da un inizio ad una fine, è un gioco divertente e divertito in cui tutti siamo coinvolti, e per questo non possiamo o dobbiamo sentirti assolti dal nostro ruolo di spettatori-protagonisti!
Nell’anno di esordio di Mezzapesa usciva nella sale anche "L’uomo in più" di Paolo Sorrentino, anche lì il finale era sospeso, aperto a qualunque prodezza di sceneggiatura, e sappiamo bene che il regista napoletano tutto può, anche scartare nella versione definitiva scene madri che nessuno sarebbe mai stato così pazzo da eliminare. Antonella Gaeta e Pippo Mezzapesa devono tanto a quella pellicola: il modo di descrivere gli spogliatoi di una squadra di calcio, quello di far sputare una cicca, quello di far urlare gli allenatori. "L’uomo in più" resta è il film italiano più interessante e completo degli ultimi 20 anni, ma non a caso le musiche e il montaggio di quel film meraviglioso sono opera degli stessi straordinari maestri che hanno contribuito al successo del film di Mezzapesa: Pasquale Catalano e Giogiò Franchini. Il primo, che mi onoro di aver intervistato a Bari nel novembre 2005 per la versione on line della rivista Colonne Sonore, ha saputo coronare magistralmente alcune delle parti più emozionanti del film, conferendo tensione, emozione, mistero, come ad esempio alla danza di Zazà (interpretato da Luca Schipani) giovane calciatore che va, come Maradona verso la porta e si beve tutta la difesa, come il campione argentino ai mondiali dell’86, senza fallo di mano finale, però.
Accanto a Zazà – che al suono ricorda "Zi Nanà", ma è l’evoluzione dei personaggi di "Come a Cassano" entrambi della stessa premiata ditta Mezzapesa/Gaeta – c’è Veleno, Nicolas Orzella che è la rappresentazione stessa dell’io narrante di Mario Desiati, autore dell’omonimo romanzo da cui il film è tratto. E non è un caso, forse, che il giovane interprete abbia nel volto e nell’atteggiamento fisico in scena qualcosa dell’autore, un ragazzo dalla faccia pulita, timido e che da bambino era stato portiere, come Veleno, in una squadra di calcio. L’attitudine del portiere ricorda Desiati è quella del voyeur, non inteso nella sua accezione sessuale, ma nel suo essere spettatore della partita di calcio per la maggior parte del tempo. Se una partita di calcio è metafora della vita allora il gioco è fatto: Holly e Benji sono stati evocati! Antonio Pisapia e il Molosso sono stati sdoganati, per sempre!
Zazà e Veleno, con il loro modo d’essere nei confronti della vita, con la loro differente attitudine alle speranze e alle suggestioni, si rapportano al mondo e attraversano il campo da calcio della "Cosmica", che è in realtà una palude di fango, tra atmosfere pasoliniane. Poi passano in un mercato che ricorda quello martoniano de "L’amore molesto". Qui avviene il delitto in cui assolutamente verosimile appare Vito Lopriore, nel ruolo del laido assassinato. Non c’è una descrizione della colpa di chi commette il delitto, d’impeto si direbbe, così come non sappiamo se il biondo e basettone "renegade" sia morto o meno.
Il mondo mezzapesiano è, quindi, fatto di "Ragazzi di vita": la vita di un piccolo centro in cui la violenza del quotidiano viene miscelata ottimamente, dosata con un candore che fa sembrare splendide anche le ciminiere del Siderurgico di Taranto, perché facenti parte del medesimo paesaggio che per sua composizione ontologica è fatto di esseri umani, vivi e palpitanti.
A dipingere ogni cosa è Michele D’Attanasio, sempre più sensibile alla qualità della luce e dei colori, alla solarità delle trombe d’oro, del sud del sud dei santi. E qui sono santi tutti, santi senza aureola e senza manifesti, chi si lancia volando dal tetto d’una chiesa, chi fugge sui tetti, chi spaccia droga e poi viene riempito di botte, i genitori preoccupati, l’allenatore esaltato, disperato e poi rassegnato. A riscrivere la storia dopo il girato, ci ha pensato poi Giogiò Franchini, grande artista del montaggio che imprime e contribuisce a creare profondità e coerenza all’operato di tutti i reparti.