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Un vulcano in piena eruzione questo Gocce d’Assenzio, sputa fuoco dall’inferno che ribolle dentro. Il sound sprigionato dagli Artemisia è il risultato di un’equazione che coniuga ossessioni ritmiche hard rock e svisate progressive. Un orientamento rivolto ad un genere in voga negli anni ’70 che non è mai mero rimaneggiamento.
Gli Artemisia aggrediscono al primo ascolto. L’apertura è affidata a Umana forma, brano superiore a tutti gli altri. Ben strutturato, è connubio tra le intuizioni chitarristiche di Vito Flebus, il massiccio drumming di Matteo Macuz e il plastico accompagnamento di Fabio Corsi al basso. Quella friulana, pur prediligendo i ritmi aspri (ben riuscite Donna prescelta e La vetrina), è una rock band che non trascura la ricerca di atmosfere rarefatte. Il tempo è una ballad melodica impreziosita dalle incursioni di organo del turnista Andrea Bondel, che si fa apprezzare anche nella successiva Inutile Essenza. Melodica è anche la composizione Il sentiero, miscellanea dalla nuance tenue, che obbliga la cantante Anna Ballarin a districarsi tra allusioni folk e accenni rapping. A lei il difficile compito di caratterizzare il profilo di questa seconda prova in studio del quartetto. Ma trovare la voce per infondere le giuste sfumature agli undici brani è compito arduo ottenuto solo in parte: la scelta impopolare di cantare i testi in italiano, una lingua dalla metrica ostile al rock, implica ulteriori difficoltà.
Curiosa la decisione di battezzare l’album Gocce d’Assenzio. Il titolo abbinato al nome della band, Artemisia (la pianta da cui si ottiene l’assenzio), rimanda il pensiero al quel liquore verde di cui hanno fatto uso e abuso Baudelaire, Verlaine e Rimbaud, celebri poètes maudits.
Al di là della bizzarra combinazione, nell’album non c’è traccia di artifici allucinogeni (e tale non può considerarsi “il buon vino Friulano” celebrato nelle note di copertina). Traspare, al contrario, una lucida naturalezza, una passione onesta nell’approccio artistico che fa sperare in un terzo album ancora più maturo.