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Inquadrare l’album di debutto di Rob Lynch è impresa ardua. Carriera agli inizi e songbook ridotto al lumicino non sono di grande aiuto. In All These Nights In Bars Will Somehow Save My Soul, l’inglese mette insieme inni da pub dall’ingente tasso alcolico, uno spiccato accento cockney, predilezione per il canto doppiato dalla seconda voce e ritornelli corali.
Il chilometrico nome assegnato al progetto tradisce, solo in parte, la genesi e l’evoluzione delle dodici tracce. Sorta di confessione nel cuore della notte con un bicchiere in mano e i sensi fuori fase, il racconto di Lynch è sfogo per metabolizzare il dolore causato dalla perdita del padre, incentivo per scorgere un barlume di appagamento nel futuro e occasione per romanzare il ciondolare senza destinazione.
Temi cari al cantautore originario del Lincolnshire, ma ormai residente a Londra, che per sua stessa ammissione riconosce di aver incanalato nei brani "una rappresentazione veritiera della mia vita da quando, dieci anni fa, ho preso in mano una chitarra".
Nonostante il proclama, e l’indubbio impegno, il disco risulta monocorde per il susseguirsi di trame sonore che sfruttano sempre lo stesso registro dinamico: accordi di chitarra acustica a far da guida, voce che non brilla per espressività in rilievo, ritornelli prevedibili e arrangiamenti da boy band.
Nel tracklisting c’è posto anche per una dedica alla propria città natale, Stamford, e per Some Nights, un titolo che immediatamente rimanda – ma solo per senso letterale – alla più celebre canzone scritta dal nostro Luciano Ligabue. Hand Granade è forse il brano che più degli altri cerca di spingere sul pedale dell’adrenalina, pur non scampando ai cliché che imprigionano tutto il lavoro. Tra meditazioni e frivolezza, i trentotto minuti di All These Nights In Bars Will Somehow Save My Soul non ghiacciano e non fanno ribollire il sangue; assomigliano più che altro un’occasione sprecata.
Di esordi acerbi se ne contano a bizzeffe, nulla è perduto.